Decreto PNRR: dubbi e incertezze in materia di appalto e subappalto

A venti giorni dall’entrata in vigore del Decreto-Legge n. 19/2024, recante «Ulteriori disposizioni urgenti per l’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR)» (che abbiamo già commentato in un precedente Alert, disponibile qui) iniziano a sorgere i primi dubbi sulla tenuta pratica di alcune disposizioni, ora al vaglio del Parlamento per la loro possibile conversione di legge.

In particolare, desta particolare preoccupazione la modifica legislativa apportata all’art. 29 del D. Lgs. n. 276/2003 (ossia la cosiddetta «Riforma Biagi») che da oltre vent’anni ha rimodulato la disciplina del contratto di appalto di servizi e le sue implicazioni in ambito di rapporti di lavoro.

La nuova disposizione (che, è importante sottolineare, ha natura transitoria sino alla sua eventuale conversione in legge) inasprisce le regole che le aziende sono tenute a rispettare laddove decidano di affidare in appalto alcune opere o servizi.

Nello specifico, il recente Decreto-Legge (in vigore dal 2 marzo 2024) aggiunge un nuovo comma all’art. 29, stabilendo che al personale impiegato nell'appalto di opere o servizi e nell'eventuale subappalto debba essere corrisposto un trattamento economico complessivo non inferiore a quello previsto dal contratto collettivo nazionale e territoriale «maggiormente applicato nel settore e per la zona il cui ambito di applicazione sia strettamente connesso con l'attività oggetto dell'appalto».

Ora, la formulazione della nuova disposizione è già di per sé particolarmente criptica: stabilire quale sia il CCNL «maggiormente applicato» in una «zona» o in un «settore» appare operazione ardua e non sempre di facile soluzione. Immaginiamo, ad esempio, uno dei CCNL più diffusi nel nostro Paese (quello del Terziario, della Distribuzione e dei Servizi) e pensiamo alle declinazioni e ramificazioni che esso affronta nei settori delle nuove tecnologie, dell’Intelligenza Artificiale, dei servizi finanziari: è possibile affermare con ragionevole certezza che tale CCNL sia prevalente rispetto ad altri più specifici ma meno applicati?

Ed inoltre, quale area geografica copre la «zona» di riferimento? Ma soprattutto: la «zona» deve essere determinata rispetto a cosa? Alla sede legale del datore di lavoro? Alla residenza del lavoratore? Al luogo di stipulazione del contratto di lavoro? Dubbi, questi, ad oggi irrisolti.

Chiaramente una risposta a queste domande giungerà dai Giudici, che peraltro già in molte occasioni si sono pronunciati sulla retribuzione minima e sulla regolamentazione contrattuale applicabile in caso di mancata applicazione di un CCNL da parte del datore di lavoro (applicando, in via analogica, proprio il contratto collettivo affine all’attività svolta dall’azienda).

Un nodo ulteriore da sciogliere, sempre al vaglio dei Giudici, sarà la necessaria coesione tra questa nuova definizione di contratto collettivo «maggiormente applicato» e quella, oggetto ormai di svariati interventi nella giurisprudenza sia di merito sia costituzionale, di contratto collettivo sottoscritto da un sindacato «comparativamente rappresentativo a livello nazionale»: tema apparentemente risolto sino all’arrivo di questo nuovo impianto definitorio che, come detto sopra, lascia ampi margini di libera interpretazione.

Al di là delle nuove frontiere della giurisprudenza, resta il fatto che la nuova disposizione, laddove confermata, porterà maggiore incertezza alle imprese e, di fatto, genererà con molta probabilità un ancor più aspro contenzioso. Si attende dunque con fiducia un ripensamento, non già sul principio (in sé condivisibile) quanto sulla formulazione della norma, ad oggi evidentemente claudicante.